Quello
alimentare è il campo a cui tradizionalmente fa riferimento il concetto di
chilometri zero, ovvero consumo locale: "zero" come i chilometri che
il cibo dovrebbe percorrere dal campo alla tavola, eliminando tutti i passaggi
intermedi – trasporto, imballaggio, stoccaggio, distribuzione – per essere
inserito in una rete commerciale locale e sottratto al commercio globale.

I
dati negativi del settore commerciale sono confermati da un’analisi di SG
Marketing sulle abitudini dei consumatori. Se quasi tre quarti di essi hanno
l’abitudine di consultare le etichette – sempre che le informazioni che vi sono
riportare siano esaustive –, per poco più della metà (59%) l’origine del
prodotto non comporta un criterio di scelta, e il dato è ancora più basso (39%)
per i giovani. Ancora più preoccupante la statistica che conferma che il 60%
dei distributori ritiene fondamentale dal punto di vista commerciale proporre
frutta e verdura fuori stagione: fragole a gennaio e mele ad agosto.
Bassi
prezzi e grandi quantità vuol dire utilizzo di chimica, importazione massiccia
e spreco di grandi quantità di prodotto e costituirebbe un passo falso fatale
per molti piccoli e medi produttori, soprattutto per quelli ancora legati a
metodi di coltivazione naturali e biologici.
Sembra
quindi che una delle armi che potrebbero rendere l’Italia competitiva sul
mercato esterno e, soprattutto, pienamente sovrana nel mercato interno, venga
usata poco e male. L’eccellenza e la tipicità dei prodotti nostrani servono
non solo a fermare l’invasione di merci importate, spesso di scarsa qualità e
sottoposte a pochi controlli, ma soprattutto a tutelare la nostra salute e salvaguardare
i piccoli produttori locali. Oggi più che mai quindi, chilometro zero e
filiera corta non devono essere solo degli slogan pubblicitari un po’
alternativi, ma delle scelte decise di consumo critico e consapevole.